Lo zio è il padre dei vizi
Ricomincio a pubblicare racconti sul Blog. Come tanto tempo fa.
Lo zio Gastone, anzi Gastòn-alla francese- come diceva lui, viveva in un enorme appartamento.
Una specie di cattedrale, che aveva acquistato e fatto arredare da un architetto di grido negli anni ottanta, dopo che aveva conosciuto una attrice di secondo piano in un hotel a Saint Tropez.
Quella gli aveva detto che voleva venire a vivere in Sicilia, a Palermo proprio.
E lui l’aveva presa sul serio: forse troppi Martini dry nel bar dell’albergo.
Fatto sta che quella si era fatta pagare due settimane di vacanza, gli aveva chiesto un recapito al quale indirizzare la sua corrispondenza, e gli aveva mollato un numero di telefono di Mentone.
Francese si, ma per pochi chilometri.
Era stato un inverno di molte lettere e poche telefonate, anche perché Brigitte Le Chat-così si chiamava la francese di Mentone, raramente accorreva all’apparecchio dalla cornetta di bachelite nera.
A voler essere precisi, rispose solo due volte, e entrambe le volte a parte i miagolii sensuali di lei, lui non era riuscito a farsi dare una data precisa di arrivo a Palermo.
Andò a finire che l’appartamento di via Marina di Ragusa era rimasto chiuso, con le lenzuola sopra ai divani e le sedie ancora rivestite di plastica dura, perché Brigitte a un certo punto si era defilata, ignorando la corrispondenza amorosa di zio Gastone e non rispondendo più al telefono.
Addirittura, la linea di Mentone venne disattivata dalla compagnia telefonica francese.
Lo zio reagì con palermitano distacco, chiudendo rabbiosamente il nido d’amore e ritornando a vivere nella casa-meno pomposa-ereditata dalla madre.
Lo zio cominciò ad avere dei disturbi comportamentali, che facevano ridere i nipoti adolescenti, preoccupare i parenti coscienti, disperare tutti gli altri.
Cominciò a fare telefonate nel cuore della notte “mi butto dalla finestra…sto alzando l’avvolgibile”. A quel punto mio padre o i fratelli correvano a vedere, ma nella maggior parte dei casi lo trovavano a letto che dormiva-o faceva finta-oppure davanti alla televisione, che di notte a quei tempi trasmetteva solo un monoscopio, con un bicchiere di scotch on the rock.
“Mi concilia il sonno” amava dire sogghignando, sapendo benissimo che il sonno dei parenti era definitivamente turbato.
Un pomeriggio ricevemmo una telefonata concitata dal capo condomino, che ci riferiva come lo zio spiasse i balconi di fronte con un potente cannocchiale da marina, declamando ad alta voce le gesta-inventate-degli inquilini spiati. Il commercialista del piano superiore lo dissuase bersagliandolo con potenti getti d’acqua.
Il peggio però lo dimostrava il 2 giugno, quando al passare delle Frecce Tricolori sulla città usciva in balcone a masturbarsi, incurante del fatto (o forse ben conscio del fatto) che gli abitanti del quartiere erano tutti col naso all’insù a guardare i jet. E il misero pistolino dello zio.
A un certo punto la sua salute fisica peggiorò, una forma di miopatia gli impediva di camminare regolarmente o alzarsi sulle gambe da solo, perciò dopo un turbolento consiglio di famiglia, durante il quale lo zio Gastone ridacchiava in maniera insopportabile, fu deciso di farlo assistere da una badante.
Ne passarono diverse, di badanti. O di “fantesca per adulti” come le apostrofava con malcelato disprezzo. Scoprimmo che lo zio aveva una collezione di filmini pornografici in super 8, acquistati probabilmente durante i suoi soggiorni francesi, che proiettava simpaticamente nel salotto mentre le “fantesche” facevano le pulizie.
Alla fine, uno zio, che aveva lavorato in un ospedale psichiatrico, trovò una ex-infermiera siberiana, Katiuscia detta Catia, un donnone dalle sembianze di un plantigrado, grossa il triplo dello zio, che ne aveva un profondo rispetto, anzi un timore ancestrale.
Cosicché quando lo zio gracchiava “ti butto dalla finestra e poi mi butto dalla finestra” lei rispondeva flemmatica “da, da, pruovaci” e gonfiava il petto mostrando i bicipiti.
Lo zio si persuadeva alla rinuncia al salto, molto rapidamente.
Finì che togliemmo il telefono dal suo comodino, perché i propositi suicidari, benché inattuati, continuavano ad essere illustrati con dovizia ai parenti in ore nelle quali un cristiano, dopo una giornata di vero lavoro, dormono.
Evitammo anche di rifornirlo di rotocalchi e riviste, perché lo zio, sfogliandole e soffermandosi sulle fotografie delle attrici o delle donne di spettacolo esordiva sempre sibilando quella parola che indica un certo mestiere, e poi passava a declamare una galleria di potenziali impieghi sessuali delle persone ritratte: gli lasciammo soltanto i quotidiani.
Se ne dolse molto, lo zio, di questa privazione, sostenendo che i quotidiani-tutti-erano buoni solo a incartare il pesce o avvolgere la merda dei cani. Recentemente ho condiviso questa opinione con lui.
Una torrida mattina di agosto, Katiuscia detta Catia telefonò a casa nostra “zio morto, viene subito perché poi puzza”.
Corremmo, io che ero studentessa al sesto anno di medicina ero abbastanza avvezza ai cadaveri, quindi mi auto incaricai dell’ispezione necroscopica.
Era morto per vecchiaia e denutrizione, Catia ci disse che da qualche giorno rifiutava qualsiasi cibo.
Poi vidi che al collo aveva appesa una chiave.
Apriva un cassettino del comodino: dentro c’erano due pistole automatiche, cariche, due buste.
La busta immediatamente sotto alle pistole conteneva un foglio con questa sola parola: suca.
Se avesse voluto veramente suicidarsi, poteva ficcarsi una pallottola nel cranio invece di declamare continuamente di voli dalla finestra.
La seconda busta invece era una specie di testamento, nel quale lucidamente lo zio elencava i propri beni-una quantità di denaro, titoli e lingotti d’oro che avrebbero potuto sostenere il PIL di una piccola nazione. Lasciava tutto a Brigitte Le Chat.
Un cugino notaio fece osservare come sarebbe stato praticamente impossibile rintracciare questa malnata Brigitte, mentre i parenti accorsi nel frattempo bruciarono questo foglio e iniziarono a litigare ferocemente su come spartire quel bendidio.
Comunque, con fatica, anch’io ottenni una discreta cifra con la quale potei coronare il sogno adolescenziale di vivere a Montecarlo.
Una di quelle pistole dello zio, regolarmente denunciata, ora giace nel cassetto del mio comodino, poggiata su un foglio sul quale ho fatto arabescare la parola suca da uno street artist. Tuttavia, non ho nessuna intenzione di buttarmi dalla finestra, né di usarla contro di me. Contro i parenti, chissà.
